Trekking estremi: l’ascesa alla vetta del Kilimangiaro

Perchè tentare di arrivare camminando sul Tetto d’Africa? Perchè cercare di raggiungere la cima del Monte Kilimangiaro (in inglese e in swahili Kilimanjaro)? La riposta nel nostro caso è stata ‘Perchè no?”. Così mio marito Stefano, io e la mascotte di pelouche Topo Arturo, che è sempre nel mio zaino, abbiamo deciso di affrontare questo trekking. Otto giorni di cammino seguendo la Lemosho Route: quasi sette per arrivare in cima e uno e mezzo per scendere da un altro versante. E’ la strada più lunga fra quelle che portano in vetta, sia in termini di giorni sia per il chilometraggio, ma è quella che, proprio per la lentezza con cui si sale di quota, permette di acclimatare al meglio. Il sentiero in sè non presenta difficoltà tecniche, tranne nel giorno in cui c’è da superare un’alta parete rocciosa, ma anche per il Barranco Wall (così si chiama la parete) non ci sono passaggi in cordata e se i quadricipiti reggono si fa un po’ fatica ma… si fa… L’unica vera difficoltà è data dal fatto di trovarsi sempre intorno ai 4000 metri di altezza nei primi giorni, poi dai continui su e giù tra i 4700 e i 4300, e dai quasi seimila metri di altezza finali. Il fatto di essere saliti molto lentamente ci ha pemesso di acclimatare bene. Sapevamo di riuscire a respirare a 5000 metri perchè ci era già capitato di trovarci ad alta quota e la cosa ci tranquillizzava. Con noi c’erano madre e figlia americane. Avevamo 12 porters, un cuoco e due guide.

La giornata tipo sulla montagna… Sveglia alle 6.30 con un porter che ci portava davanti alla piccola tenda una bacinella di acqua calda con un pezzo di sapone. Sufficiente, tanto con le temperature intorno allo zero se non sotto ci si limitava a lavare mani e viso. Niente doccia. Colazione in una tenda un po’ più grande allestita con sedie e tavolino. Porridge, salsicciotti, toast, marmellata, frittata… Partenza intorno alle 8.00. Ritmo lentissimo. Pole pole. Sempre intorno al km orario anche a quote basse, per abituare muscoli e cervello al ritmo che sarebbe servito nella summit-night. Nel frattempo, i porters, molto più abituati di noi all’alta quota, smontavano e portavano avanti il campo. Ci superavano e al nostro arrivo verso le 13 al campo successivo trovavamo la tenda già montata. Pranzo, solitamente a base di pollo. Un grosso vassoio di popcorn ogni pomeriggio. Camminata per tenere in movimento i muscoli. Cena, a base di carboidrati. Check medico. A nanna poco prima dell 20. Niente luce. L’alba che non arriva mai e le difficoltà a dormire. Le uscite notturne armati di torcia per cercare un cespuglio perchè i 3/4 litri d’acqua che le guide ci obbligavano a bere durante il giorno si facevano sentire… Decisamente, la vita in tenda è stata la parte più difficile del trekking. Per il freddo, per il buio, per le lunghissime notti che non passavano mai…

Nella notte fra il sesto e il settimo giorno, dopo 10 ore di sosta a 4700 metri (che ci sono parse eterne) guardando la cima davanti alla nostra tenda, abbiamo affrontato la salita finale.

Questo che segue è un estratto del mio libro in cui racconto l’avventura…

“Briefing. Situazione: siamo a soli 5 km da Uhuru Peak, il punto più alto del Kili. In linea retta sarebbero meno, ma procederemo a zig-zag per risentire il meno possibile dei 1200 metri di dislivello che ci aspettano. Previste sei o sette ore per arrivare in cima. Nei primi quarantacinque minuti dovremo fare quello che qui chiamano ‘monkey business’, affare da scimmia. Guanti da roccia come sul Baranco dunque. Una volta raggiunto avanzando come babbuini il Kosovo Camp (the last camp) sarà solo trekking. Pole pole per lunghi tratti, sarebbe pericoloso fermarsi troppo spesso per via del freddo. Rigorosamente vietato chiedere ‘quanto manca???’. Come riferimento sappiamo che dall’inizio del cammino arriveremo in prossimità del cratere e dello Stella Point in cinque o sei ore, in contemporanea con i primi raggi di sole. Da lì mancheranno 700 metri alla vetta con un dislivello di 139 metri. Vietato fermarsi. Un’altra ora circa per raggiungere il punto più alto. Tempo per le foto di rito, un quarto d’ora per goderci la cima, non di più per questioni di sicurezza. Edemi e compagnia bella sono sempre in agguato a quella quota. Discesa veloce e sosta fotografica anche a Stella Point e ancora più veloce la discesa per tornare qui alla tenda. Sonnellino. Pranzo. Altra discesa, quattro ore di cammino, fino al Mweka Camp a 3100 di altezza. Lì passeremo la notte.

Il tratto più difficile dovrebbe essere a circa due ore da Stella Point, per la fatica, per il freddo e per la mancanza di ossigeno che potrebbe cominciare a farsi sentire.”

La vestizione inizia dopo che Rama alle 23 viene a dirci sorridendo ‘wake up!’. Calzamaglia termica, pantaloni invernali, sovra pantaloni da pioggia antivento. Intimo termico a maniche e collo lunghi, altra maglia termica sopra, orsetto, giacca a vento imbottita, guscio in goretex antivento e antipioggia. Calzettoni in lana merinos con pastiglie scaldapiedi incollate sotto. Cappellino invernale e balaclava sopra. Torcia da testa.

Alle 23.20 facciamo popcorn time messi così. Mi sembra di essere un palombaro, faccio quasi fatica a muovermi per la tanta roba che indosso. Ma non mi avanza nulla. Mi auguro con tutto il cuore che non mi capiti mai prima di domattina di dover fare pipì! Fa freddissimo. In vetta sono previsti meno 13 gradi e una grande umidità. Tira un vento fortissimo. Indossiamo anche i guanti con le pastiglie scaldamani infilate dentro. Zaino in spalla con due litri di acqua e qualche snack. Arturo, c’è anche lui ovviamente. Anche lui vestito, con giubbottino di pelle, cappellino di lana e sciarpa. Lascio la reflex in tenda, impensabile di portare altri due chili fin su. Infilo in una tasca la compatta e in un’altra tasca l’iPhone. Devono stare il più possibile vicino al corpo per via delle batterie che rischiano di scaricarsi col freddo.

Impugniamo le nostre bacchette da trekking. Pronti via: summit night!

Ore dopo…

Pazzesco. La fatica più grande della mia vita. Festeggiamo il Capodanno poco dopo l’inizio del sentiero. Sotto di noi sempre le luci di Moshi, sopra di noi nitidissima risplende la Via Lattea. Il vento gelido soffia da tutte le direzioni.

È buio. Luna nuova. Occhi fissi sui piedi della guida che ci precede. Continuiamo a salire zigzagando. Le centinaia di torce di noi trekkers sembrano un lungo serpentone illuminato.

La salita è molto faticosa. In tanti si fermano, chi per il vomito, chi per il mal di testa. Il mal di montagna non è uno scherzo. Qualcuno non riesce più a muovere le gambe. Fa sempre più freddo. Il vento gelido fa desistere molti. Continuiamo a camminare al buio per le prime cinque ore. Il terreno è sabbioso, impervio e scivoloso. Le nostre torce che illuminano i nostri passi nel raggio di 50 centimetri, non ci danno idea di dove stiamo andando, lo sforzo ci indica solo che stiamo salendo. Pole pole. Piano piano.

Don’t stop! Keep moving!

Don’t sleep! Perché con questa andatura lenta e questo freddo la tentazione di chiudere gli occhi, avanzare per inerzia e addormentarsi c’è…

Dovremmo bere spesso e mangiare qualcosa, ma non ci riesco. Ho raggiunto un sottilissimo equilibrio fisico… Mi sento che se provassi anche solo a bere un sorso di acqua e ad ingerire qualcosa questo stato di benessere sparirebbe. Tento per la verità di inghiottire due datteri. Il primo va giù a fatica, il secondo proprio non va. L’unico sorso di acqua che riesco a bere è gelido. Dopo poco nessuno di noi riesce più a bere: l’acqua si è ghiacciata nelle borracce che si trovano nelle tasche esterne degli zaini. Forse nelle borracce che stanno dentro agli zaini e che abbiamo con tanta cura avvolto in una t-shirt per proteggerle dal freddo l’acqua potrebbe non essersi ghiacciata, ma nessuno ha la forza di togliere lo zaino dalle spalle e di provare ad aprirlo. Le dita delle mie mani si sono congelate dopo la prima ora di cammino, nonostante le pastiglie riscaldanti. Tengo le mani in tasca per il resto della salita, con le bacchette da trekking inutilizzate che mi penzolano dai polsi. Difficile salire senza l’aiuto dei bastoncini. Perdo spesso l’equilibrio. Difficile anche continuare a salire al buio. Osservo il serpentone illuminato delle torce in testa a chi ci precede. Osservo il serpentone illuminato delle torce in testa a chi si segue. Abbiamo tanta gente dietro, vorrà dire che un po’ di strada l’abbiamo fatta. Non riesco a guardare che ore sono. Il polso è coperto da cinque maniche di vestiti. L’iphone è nella tasca interna dell’orsetto. Terzo strato, dovrei aprire il piumino e la giacca in goretex per arrivarci. Continuo a salire nel buio senza avere idea di che ora sia.

Dopo ore di marcia il cielo cambia. Intravediamo un po’ di luce. I primi bagliori. C’è tanto vento che dalla pianura fa alzare le nuvole verso di noi. L’effetto delle nuvole che si muovono roteando tra i primi raggi di sole è fantastico. La luce che piano piano (anche lei pole pole) si fa sempre più forte ci dà energia. Ce lo hanno detto al briefing: primi raggi di sole vuole dire cratere vicino…

“Let’s go kill the mountain before the mountain kills you!”

Sempre più in su, fino al cratere. Stella Point! 5756 metri di quota. Partono gli abbracci e qualche lacrima. Gli accordi non erano questi. Gli accordi erano di non fermarsi, ma di proseguire subito fino a Uhuru Peak. Mancano ancora 700 metri di distanza e 139 metri di dislivello!! Chiedo a Stefano perché stiamo già festeggiando se manca ancora così tanto e mi risponde che è giusto così, che ormai siamo in cima…

Sarà faticosissimo arrivarci però! L’adrenalina con tutti questi festeggiamenti anticipati precipita. Le mie gambe faticano a muoversi. Riesco a fare si e no cinque o sei passi alla volta e poi mi devo fermare qualche secondo. Le tante ore passate senza bere e senza mangiare devono avere tolto ossigeno ai miei muscoli. Stefano mi prende sottobraccio.

La nostra guida Masu continua a dirci ‘guardate i miei piedi, guardate i miei piedi, camminate così pole pole!!’. Ci siamo, ci siamo.

E… sì finalmente ci siamo.

Dopo quasi un’ora di marcia da Stella Point tocchiamo il grande cartello con scritto Uhuru Peak!

Sono le 7.12 dell’alba di Capodanno.”

Lela Poleggi

Be the first to comment on "Trekking estremi: l’ascesa alla vetta del Kilimangiaro"

Leave a comment

Your email address will not be published.


*